Il sindaco Pd, Virginio Merola, renziano acceso, sagace nei confronti dei detrattori del premier (ma prima è stato, in ordine, dalemiano, fassiniano, cofferatiano, veltroniano e bersaniano) vende 7,49 milioni di azioni della Multiutility Hera perdendo in un colpo circa 1 milione di euro.
«Come col giocatore di biliardo che, indeciso tra boccia e boccino, va a finire che ci passa in mezzo e non colpisce niente. In bolognese si dice: al passag di mammalo’cc», commenta il consigliere comunale indipendente Stefano Aldrovandi, ex amministratore delegato proprio di Hera Spa. «Se fanno così le cose facili figuriamoci le difficili».
La decisione di vendere viene assunta, da Merola e giunta il primo luglio scorso, proprio il giorno in cui Libero pubblicava l’inchiesta sulle 1.500 tonnellate di rifiuti tossici sepolti sotto la sede di Hera al centro della città. Un modo per recuperare liquidità «per la manutenzione della città, per l’edilizia pubblica e scolastica – spiega il giorno stesso il vicesindaco Silvia Giannini – sono operazioni meritevoli che lasceremo in eredità alle prossime generazioni». Hera è una società sbarcata in Borsa dal 2003, operazione gestita proprio da Aldrovandi, quando ne era amministratore delegato.
Il Comune cede inizialmente un pacchetto di 1,4 milioni di azioni, qualche giorno prima dell’uscita dei dati della semestrale (l’andamento dei conti) e ricava 2,87 milioni, vendendo a 1,9787 euro per azione. Perché vendere prima della semestrale? Il dubbio resta. Escono poi i dati, che sono migliori delle attese. Il titolo sale, raggiungendo in pochi giorni 2,140 euro per azione e sale ancora.
Risultato? Buttati al vento in poche ore oltre 230.000 euro di soldi pubblici. «Se proprio non ci si capisce nulla, per scegliere il momento giusto in cui le azioni valgono il massimo, basterebbe chiamare l’amministratore delegato di Hera, anche perché il Comune è il principale proprietario-azionista della holding». Commenta sconsolato Aldrovandi.
La seconda puntata, la vendita dei restanti 6,09milionidi azioni, è andata anche meglio. Il Comune si è accorto che i titoli miglioravano e ha ceduto le quote a 2,034 euro ad azione, incassando oltre 15 milioni, vendendo però a circa 0,1 euro per azione in meno del massimo. Aldrovandi incalza: «Anche qui, riflessi lenti: gli zero-virgola contano. Tra la prima e la seconda vendita il Comune ha perso un milione di euro», spiegherà in Consiglio comunale.
«Io sono un tecnico, dei giochi politici non mi interessa niente. Ma quando vedo buttare in questo modo denari pubblici ci resto male», commenta.
Reazioni? «Nessuna. Loro son fatti così. Ti ignorano. Sanno che probabilmente non succederà niente».
La vicenda sembra il refrain di altre inchieste giornalistico-finanziarie affrontate in terra emiliana. Come nel caso della scoperta negli archivi di Banca d’Italia dei «titoli derivati» contratti dal Comune di Bologna, che per giorni negò di averli, poi ammise e infine negò di nuovo, con il tecnico responsabile, Stefano Bigi, che firma l’accordo e vidima il «questionario di accettazione» dichiarandosi incompetente in materia. O l’inchiesta sul salvataggio, sempre con soldi pubblici, della cooperativa Nuova Scena indebitata con Legacoop. Stessa musica.
Aldrovandi si è fatto un’idea anche per questa faccenda: «Ci sarà un titoletto sul giornale e poi volerà via. Sembra che qui in Emilia, alla fin fine, nessuno possa farci niente».
(pubblicato su LIBERO NAZIONALE del 10 settembre a pag. 8)
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